• cieli di bosco

  • "Caro architetto, le ombre non si costruiscono, vengono su spontanee."
  • Davanti a questo memo che Luigi Billi mi ha scritto sull’invito di una sua inaugurazione Newyorchese (Monday, February 22, 1999) mi trovo adesso, in un Venerdi che segna l’ennesimo cambio di stagione. Si trattava di una mostra che portava luce su alcuni Hombres, ossia sulle ombre portate—non proprie ma comunque di proprietà—di una serie di uomini a lui ‘prestate’ perché ne costruisse un’altra ‘ombra’ma anche un altro da sé, un altro Venerdi mi verrebbe da dire, operazione che il nostro realizzò, mettendo in scena un limitato ma convincente teatro dell’umano e delle sue sensazioni, negative come positive, tristi come festose, che compongono le nostre ore.

    Davanti a quelle ‘ombre’ del Luigi Billi mi sono spesso trovato a meditare perché esse rendevano evidente due fatti su cui pochi si sono interrogati: di fatto due impossibilità: da un lato, l’impossibilità di staccarsi dalla propria ombra, dall’altro l’impossibilità di calpestarla, come se ogni tentativo di autocritica non fosse dato, anche se più volte ho pensato che tutta la sua opera fosse una sorte di autocritica, non tanto a sé stesso ma alle molte direzioni sbagliate intraprese dalla società nel suo complesso.

    Davanti alla ‘sentenza’ del Luigi Billi—la spontaneità delle ombre—mi sono anche soffermato, perché, occupandomi di architettura era impossibile non pensare che essa non fosse un suggerimento: e cioè che per quanto cercassi di giocare con luce e le sue ombre, per quanto cercassi di usare le ombre come strumento di architettura, ci saranno sempre elementi spontanei impossibili da dominare, elementi estranei al nostro controllo o out of control, come si direbbe a New York.

    Davanti ad una versione di ombre in un interno mi trovo adesso, di fronte a dei “Cieli di Bosco” che il Luigi Billi ha accumulato dove il cielo rimane assente e il mondo esterno è diventato un interno: una condizione inaspettata dallo stesso autore che si è prodotta in modo spontaneo? Potrebbe anche essere, ma è certo che ci si sente in una spazialità nuova e inconsueta in cui il Luigi Billi costruisce un’altra spazialità altra da sé, una spazialità strutturata, forse claustrofobica ma comunque protettiva, quasi come se cercasse di dare immagine allo spazio interno delle frasche del tetto della capanna primitiva dell’abate Laugier, uno spazio reso forte e sicuro dall’accartocciamento del medium che ne caratterizza l’opera insieme a raffinati titoli (molto importanti per cogliere la sfera complessiva dei suoi riferimenti ironici e non) e sottili giochi di parole tra l’apparire e l’essere, tra la pelle e il nucleo, tra il vestito e il corpo, o, come direbbe Semper, tra il Kernform e il Kunstform, dove l’arte (Kunst) è da ricercarsi nelle diverse trame e fattezze del vestito, che sempre si pone come commento della situazione, delle sue regole e delle sue invenzioni.

    Davanti alla dialettica tra la regola e l’invenzione, una dialettica che ha per lungo tempo caratterizzato al produzione teorica delle arti, e dell’architettura in particolare, si rimane, oggi, perplessi e quasi muti, essendo l’eccezione diventata la regola e la regola eccezione; ma davanti a questi cieli di bosco, in un Venerdi di cambio di stagione, la coincidenza nomen--omen appare troppo potente per non essere menzionata: ci si sente davanti ad un cambio di stagione dell’artista davanti a sé stesso, davanti a Billi.