• cieli di bosco

  • Il titolo di questa recente serie di Billi, Cieli di bosco, si presta a molte divagazioni. In primo luogo sembra giocare sull’assonanza, come il precedente Hombres, costituito da silhoettes di ombre di uomini. Nel caso di Cieli di bosco la relazione omofonica è forse meno diretta, eppure dal primo momento questo titolo stabilisce un legame con “uccelli di bosco”, il che rende i cieli delle immagini ancora più misteriosi e mutevoli. Il senso dell’udito è coinvolto tanto dall’implicito movimento delle fronde causato dal passaggio dei venti quanto dal presagio/ricordo di battiti d’ali.
    Cieli di bosco riecheggia anche molto da vicino Chiari del bosco, titolo di uno straordinario libro di Maria Zambrano, che tra tutti, come sostiene l’autrice, è il più rappresentativo dello spessore poetico del suo pensiero. «Tra le mie opere, [diceva] è questa, io credo, che meglio corrisponde all’idea che pensare è, prima di tutto , alla radice, decifrare ciò che si sente, il “sentire originale” […]».
    Meglio abbandonare il titolo che potrebbe anche prestarsi alla produzione di catene simboliche devianti dal cuore delle immagini, per proseguire questa flanerie intorno all’opera di Billi, condotta in osservanza al metodo delle libere associazioni, guardando con tutti i sensi allerta la pelle e il corpo di ciò che egli dà a vedere.
    Sono porzioni di cielo schermato da foglie, e derivano da scatti fotografici volti a catturare visioni che si danno quando si guarda verso l’alto da dentro un bosco.
    Pur cercando di evitare di esplorarne il significato simbolico, benché sia forte la tentazione di addentrarsi nella selva di “nodi” ancestrali contenuta in ogni immagine di bosco - da quello dantesco a quello di Biancaneve di Walt Disney, passando per gli umidi anfratti delle gole del Jura che il pennello di Courbet ha reso visibili- al tempo stesso è quasi inevitabile fare riferimento al suo carattere “altro” rispetto all’ordinario, ovvero al suo legame con il sacro. Ovvero, se da un lato, nella percezione del suo aspetto più manifesto e leggibile è dominante la suggestione esercitata dalle presenze misteriose che il fitto del bosco può celare, dall’altro, per la sua stessa struttura, questo è a livello simbolico una delle figure più rappresentative di una tensione verso la trascendenza: come le voci di un coro, gli alberi del bosco si rafforzano a vicenda nella loro funzione di tramite tra cielo e terra.
    La tendenziosità dello sguardo di ciascun osservatore è indiscutibilmente alta, si sa, e dipende da diversi fattori, legati alla cultura e alla storia, sia personali sia sociali. Lo sguardo è condizionato soprattutto da un fitto corredo d’immagini che ne impostano e guidano la percezione, tanto è vero che quand’anche ci si trovi ad avere per la prima volta sotto gli occhi qualcosa di sconosciuto, automaticamente nella memoria si aprono una serie di connessioni e si creano involontariamente diverse combinazioni che si compongono in catene di rimandi.
    Grande è la parata di boschi nell’arte: quelli dei quadri del Seicento -si pensi a Rubens e a Poussin- colmi di presenze mitologiche, di fauni e ninfe sensuali; i boschi dei dipinti del Settecento, tra cui spiccano le foreste di Friedrich, disseminate di rovine e cariche al tempo stesso di senso d’infinito e finitezza; i boschi chiari, larghi e addomesticati di Corot e quelli più fitti e oscuri della scuola di Bobigny.
    Luogo d’incantamenti, il bosco, con il suo spazio ambivalente, allo stesso tempo aperto e chiuso, ha anche colpito l’immaginario di diversi artisti contemporanei. Per restare in Italia, si ricordi Penone, che fin dagli anni Sessanta dimostra di non volersi distaccare da quello che è diventato sempre più chiaramente nel corso degli anni l’archetipo cui ricondurre la totalità delle sue opere; così come l’intero lavoro di Giuliano Mauri, che rende un esplicito omaggio alla fonte prima della propria ispirazione con le diverse versioni di Cattedrale vegetale.
    Ma è bene fare un passo indietro rispetto alla cronologia, per considerare che il bosco è stato uno dei topoi impressionisti (e non solo strettamente impressionisti ma anche pre e post), e lo è stato proprio in quanto dispositivo che filtra la luce in modo efficacissimo. Basta vedere le sorprendenti e mobili macchie di sole prodotte dal fogliame in Demoiselles au bord de la Seine (1856-57) di Courbet, in Bal au Moulin de La Galette (1867) di Auguste Renoir e in Un dimanche aprés-midi a La Grande Jatte (1884) di Seurat, per non dire del ruolo che svolge nelle ambientazioni di Une partie de campagne (1936) di Jean Renoir, pellicola che costituisce il sentito omaggio del figlio regista al mondo, ormai perduto, del padre pittore.
    Tutta questa nutrita genealogia d’immagini e molto altro ancora gioca nella percezione di chi, nell’ambito della cultura occidentale, guarda un bosco, e nello specifico, un cielo di bosco fotografato e “manipolato” da Billi.
    Certamente il riferimento all’impressionismo risulta quasi scontato, vista la lunga storia d’intrecci, anzi, l’amore quasi simbiotico che lega questo movimento alla fotografia, mentre il paragone con Courbet, anche se meno immediato, non risulta affatto secondario, poiché introduce un’istanza materica di cui l’opera di Billi partecipa in modo originale.
    Le sue fotografie hanno un’accentuata fisicità ottenuta principalmente attraverso due accorgimenti; uno che, attuato per via d’interventi di colore a pennello, si situa più nel solco della tradizione (si pensi ai fotoritocchi); mentre l’altro deriva da un’azione concreta, molto usuale nella vita, ma più raramente introdotta nell’arte: l’accartocciamento della carta plastificata su cui è stata stampata la fotografia.
    La superficie, in questo modo non perfettamente tesa, anzi artatamente grinzosa e “sciupata”, funziona come segnale della precarietà: ciò che oggi ha valore, ieri non l’aveva e forse domani potrà non averlo più, e viceversa. Implicate quindi profondamente nel flusso del tempo, le immagini sono segnate come volti dalle rughe e acquistano, direttamente dal gesto che le appallottola per poi distenderle e spianarle soltanto parzialmente, il carattere di scarto, di reperto, di resto, di rovina. Come se l’autore avesse messo le mani nel cestino dei rifiuti per recuperare qualcosa che è stato pericolosamente sull’orlo dell’oblio e della sparizione, e in un secondo tempo felicemente salvato.
    Ma si torni per un momento al bosco e al suo gioco di luce e ombra, che forse per Billi funziona come metafora del linguaggio fotografico tout court, se non addirittura come indicatore delle dinamiche fondamentali del meccanismo della visione che verte sull’azione combinata di svelamento e nascondimento.
    Il vero protagonista dei Cieli di bosco di Billi è il cielo o il bosco? Gli occhi su cosa si devono concentrare? Che cosa devono mettere e tenere a fuoco? Il primo o il secondo piano? Il vuoto o il pieno? L’aria o le foglie?
    Le fronde che, più fitte o più rade, creano veri e propri patterns, diversi soprattutto secondo la densità ma anche conseguentemente alla forma delle foglie, assumono la funzione di una vera e propria punteggiatura del cielo.
    I cieli, a volte incorniciati, altre occlusi e soffocati, allontanati o tempestati dall’azione delle foglie in primo piano; esaltati, sfondati, incupiti, induriti o accesi dall’intervento cromatico, danno vita a una gamma sensibilmente ricca di variazioni sul tema. Come una musica per gli occhi.

    Il tempio deriva il proprio schema strutturale proprio dal bosco.
    Tra l’altro gli alberi, soprattutto per la loro verticalità, sono come il “doppio” naturale della figura umana eretta (non a caso capelli e fronde vengono definiti ugualmente con il termine chioma).