• cieli di bosco

  • Quando il paziente toglie il suo sguardo dal mio volto, abbassando gli occhi o facendoli vagare nella stanza dell’analisi, io li alzo. La mia vista riposa tra le foglie di Luigi Billi. Le vedo e non le vedo. Non ha importanza. Una parte della mia anima è dentro l’immagine, e insieme nell’anima di quella persona che siede davanti a me. Dietro la sua poltrona, lievemente sopra la sua testa, un chiodo sostiene il quadro. Brevi tuffi nel mondo evocato dal quadro che raccolgono nuove energie. Come quando in montagna si sosta a riprendere fiato. E ci si guarda attorno.
    Molte ore della giornata un Cielo di bosco occupa il mio campo visivo. Da circa un anno. Un’immagine che mi accompagna. Penso ormai di non poterne fare a meno. Ormai qualcosa di sacro.
    Quando vidi per la prima volta questi lavori fu come un fulmine a ciel sereno. Un innamoramento. Ne avrei voluti comprare tanti. Riempire le pareti della casa. Fantasie infantili, forse.
    Come dice Bollas, uno psicoanalista freudiano che apprezzo molto, ci sono oggetti (d’arte, in particolare) che evocano tanti significati, tante cose del nostro profondo, che conosciamo e non. E che hanno il potere di “elevare il sé”. Di contribuire a elaborare il nostro personale Idioma. Strane parole per un freudiano, così simili a quelle di certi filosofi dell’arte.
    Cieli di Bosco appartengono al mio idioma. Uno stile della psiche non solo privato. Un linguaggio sedimentato di letture, immagini, esperienze. Individuale e universale insieme.
    Tante di queste si sono addensate nell’attimo del primo sguardo. Un po’ come nelle libere associazioni appena si raccontano i sogni, mi sono venuti in mente registi, pittori, filosofi. Ho pensato alle interminabili inquadrature di Tarkovskij in Andej Rublev su dettagli di rami e ruscelli. Alle altrettanto interminabili soggettive del regista ospite nell’antichissimo monastero certosino, che compongono i quadri cinematografici de Il grande silenzio. Alle Elegie Duinesi di Rilke. A quello che dice Heiddegger in Sentieri interrotti su quanto la poesia illumina e rivela l’essenza nascosta di quell’essere che quotidianamente guardiamo senza notarlo. Un filo sottile ma durissimo lega tutti questi lavori, teorici o estetici non fa differenza. Un filo che può essere individuabile in una osservazione di Klee. L’artista vede nel visibile l’invisibile.
    Certo, forse non tutti gli artisti sono di questa opinione. E non intendo fare delle teorie sull’arte. Questo è l’idioma in cui sono immersa. Una mistica laica, mi verrebbe da dire. L’eterno nel tempo.
    Lo spazio ristretto del quadro, i dettagli del fogliame dilatano spazi mentali che hanno il potere di arrestare il tempo. Il nostro solito tempo mondano. Noi abbiamo bisogno di uscirne fuori, ogni tanto. Di guardare le cose sub specie aeternitatis, dicevano i filosofi del medio evo. Altrimenti affoghiamo. Certo, abbiamo bisogno di soglie. Di uscire e entrare. Non possiamo sostare troppo, al di là. Saremmo persi per sempre. Ma lo siamo anche, e magari non ce ne accorgiamo, a vivere senza ampi orizzonti, accecati dall’ansia di sopravvivere, ognuno a suo modo.
    Sono Soglie, questi lavori di Billi. Ci permettono di entrare e uscire, di sostare nello spazio infinito, nel non tempo della contemplazione. Nel silenzio. Il grande silenzio dei mistici e dei monaci, lontano dal chiasso delle menzogne del potere.
    Non è una fuga dall’essere, la rappresentazione dell’essere che appare in questi quadri. “Metamorfosi e riparo delle cose in pericolo”, dice delle opere di Cézanne Peter Handke, altro scrittore che appartiene al mio idioma. Anche Cézanne immortalava i dettagli, le cose che cadono sotto gli occhi di tutti i giorni. I particolari.
    E’ come se solo attraverso una tale metamorfosi –una volta, molto tempo fa, si sarebbe parlato di trasfigurazione- possiamo riuscire a vedere l’essenza del reale che ci circonda, percepirne lo spessore ontologico, l’assonanza tra l’esterno e l’interno di noi stessi. Vivere in quell’Unus Mundus di cui parlavano gli alchimisti.
    E infine, mi viene in mente il mito di Pan. Lui, la divinità della pulsione coatta e cieca, ma anche di quel senso dell’unità del Tutto. Panteismo.
    E’ proprio Pan, mezzo animale e mezzo uomo, a essere stato rappresentato nella storia dell’arte sostare pacificato tra “cieli di bosco”, vicino a sorgenti di acqua pura. In compagnia delle muse, ispiratrici dell’arte. Sono le stesse imparentate a Orfeo, altro mitolegema vicino a quello di Pan.
    Sono questi i luoghi dove l’affanno – la cura ossessiva direbbe Heidegger- si placa.
    Dove l'Anima simbolica ha lo spazio necessario per evocare immagini che ammansiscono le torbide passioni del profondo dell’Ego. Non è un mito così lontano. Mai come nella contemporaneità ossessionata dall’avidità di sesso, potere e denaro, sconvolta da una temporalità impazzita, questo mito ci parla offrendoci la possibilità di salvare la nostra umanità. Sotto, accanto, davanti i Cieli di Bosco.