• cieli di bosco

  • Molto bosco, poco cielo nella tracce visive del lavoro che Luigi Billi ha raccolto in queste pagine. Lo si immagina ore e ore con l’obiettivo puntato verso l’alto, per fissare in una quadratura la sensazione fisica che si prova quando ci si sente risucchiati in un equilibrio naturale che non ci prevede e tuttavia può accoglierci, una sensazione di rapimento capace di sedurre le nostre facoltà percettive tanto da farci sospendere ogni coazione interpretativa, o almeno illuderci che sia possibile farlo, e che il mondo coincida con quel che la visione retinica ci restituisce.
    Ma poi si torna alla vita, e quando Luigi Billi torna al suo studio, per qualche insondata ragione deve accartocciare quelle immagini, introdurre nell’armonia prestabilita una azione di disturbo, popolare il silenzio catturato dalle sue fotografie facendolo attraversare dal commento di voci – questa per esempio – più o meno intonate a quel che gli suggeriva il rumore della frizione tra il vento e le foglie. Quanto c’è di naturale in un bosco e quanto di artefatto, quanto c’è di intenzionale nel silenzio e quanto di subìto, quanto dista l’illusione di infinitezza che la natura suggerisce dalla sua subordinazione alla legge dell’entropia, magari accelerata dalla mano dell’uomo. Tra tutto ciò che la corrente delle associazioni trascina, c’è un racconto ormai remoto di Abraham Yehoshua, un racconto che risale al 1962 e si intitola “Di fronte ai boschi”.
    Proprio come Luigi Billi, il protagonista è stregato da quella distesa di alberi che gli si para davanti una volta raggiunta la postazione alla quale lo hanno assegnato: è uno studente israeliano, dovrebbe scrivere la sua tesi ma le parole lo hanno stancanto, cerca solitudine, silenzio, pace interiore. Dunque farà la vedetta contro gli incendi, giorno e notte veglierà sul bosco perché non vada in fumo. Ha trovato la solitudine, peccato che ora lo turbi tanto, e che anche il silenzio intorno a lui sia del tutto innaturale: ci sarebbe un arabo, infatti, con il quale scambiare ogni tanto qualche opinione, peccato che sia muto.
    Vive lì da tempo con la sua bambina e provvede a procurare il cibo per le vedette che si alternano di stagione in stagione, ma qualcuno molti anni prima gli ha tagliato la lingua, dunque è ormai senza parole. Quel che aveva sognato si è trasformato in un incubo, questo pensa lo studente mentre avvolge con lo sguardo i boschi, e di tanto in tanto si chiede se sia possibile chiamare lavoro qualcosa che si risolve nell’atto stesso del guardare. Passano i giorni e arriva il fine settimana, un gruppo di gitanti va a passeggiare nel bosco, addio silenzio, la solitudine alla quale la vedetta si andava abituando è anch’essa svanita. Qualcuno avvicina lo studente, vuole sapere in quale punto, di preciso, si trovava il villaggio arabo segnato sulla piantina, desidererebbero cercarne le tracce smuovendo le radici degli alberi. Lo studente è interdetto, non ne sa nulla, pensa a uno sbaglio sulla cartina, ma l’idea che il bosco seppellisca qualcosa è ormai intervenuta a turbare quella tranquillità alla quale aspirava.
    Di notte va dall’arabo e gli ripete il nome del villaggio, forse lui ne sa qualcosa: sì, ne sa qualcosa, un lampo di speranza e uno di odio gli attraversano lo sguardo mentre indica dalla finestra un punto laggiù nel bosco. Dunque, non sempre quel luogo è stato così solitario, né così silenzioso. I sogni della vedetta ora somigliano a allucinazioni, chiama vicino a sé l’arabo con la bambina, vivranno insieme nella stessa stanza, via via che i giorni passano la vicinanza acquisita li rende inseparabili. Ma la vedetta è ingaggiata per una sola stagione, ha compiuto il suo lavoro, ha vigilato con cura, ora è arrivato il tempo di andarsene, di separarsi dal bosco, dall’arabo e dalla bambina, tutto ciò che sembrava reale è dunque pronto svanire.
    L’ultima notte scende a divorare il panorama, le ombre degli alberi si appiattiscono al suolo, e tra quelle ombre l’arabo disperato per la prospettiva di un nuovo abbandono si muove “come un pugnale silenzioso”. La vedetta è alla finestra, per l’ultima volta il suo sguardo è pronto a perdersi in quella quiete, ma una luce lo attrae, è una fiamma, poi un’altra, all’improvviso è un grande fuoco.
    Finalmente, tutto quel guardare della vedetta ora mostra di avere un senso, bisogna dare l’allarme, affrettarsi a chiamare i pompieri. Ma lo studente sente le gambe farsi di piombo, i movimenti rallentare, la sua motivazione cadere e mentre l’arabo corre per il bosco “come un vento cattivo”, la vedetta gira gli occhi sulla bambina e le rimbocca la coperta, mentre dalle ceneri risale come un fantasma il villaggio sepolto.