• cieli di bosco

  • Quando camminiamo in un bosco ci accorgiamo che siamo in uno spazio che non ha un centro. La diversità di alberi, foglie e sottobosco indica una variazione di forma e colore, ma non una gerarchia spaziale. Nell’attraversarlo l’unica misura che abbiamo è la vicinanza o distanza tra le piante: il bosco può avere solo un centro geometrico, cioè una pura astrazione che noi non percepiamo.
    Naturalmente il centro non è solo una coordinata spaziale, ma un’idea che plasma il nostro sistema di pensiero e la percezione del nostro corpo.
    I “cieli di bosco” di Luigi Billi al primo impatto hanno lo stesso effetto di spaesamento del bosco reale: fitte superfici omogenee che si interrompono alla fine della foto al taglio della carta, ma potrebbero continuare uguali nel loro decentramento visivo. Di fronte a questi lavori la prima cosa a cui dobbiamo rinunciare è la gerarchia spaziale: l’atto con cui ci avviciniamo ad un opera è la ricerca di un centro compositivo o narrativo, qui alto e basso ma anche destra e sinistra si potrebbero scambiare senza che il fitto fogliame perda il suo senso spaziale.
    La mancanza di centro però non è sufficiente a spiegare l’effetto di sospensione che questi lavori creano: le parti di ciascuna foto sembrano scambiabili per l’omogeneità dell’oggetto fotografato: l’intrigo di rami e foglie e le aperture di luce netta e in forte contrasto con lo scuro del bosco occupano tutta l’inquadratura e mostrano il tema della ripetizione all’interno di ciascuna foto. Attraverso la ripetizione di elementi familiari e antichi quale è il nostro paesaggio naturale, Cieli di bosco ci accompagna verso uno stato di sospensione che ci permette, o almeno favorisce, uno sguardo diverso sugli oggetti fotografati fino a che l’immagine nota del bosco emerge in un altro modo producendo un cambiamento mentale. Un oggetto semplice come è il bosco crea in questi lavori di Luigi immagini tutt’altro che semplici e significati non pre-costituiti e articolati. La semplicità dell’oggetto è inversamente proporzionale alla creazione di varietà e ricchezza di significati con un linguaggio privo di alcuni stereotipi dell’arte contemporanea.
    Le foto evidenziano il più possibile lo scambio tra la luce che entra attraverso le foglie e queste che ne ostacolano il passaggio: si stabilisce così il rapporto principale tra i due elementi: quello denso e scuro e quello impalpabile e luminoso. Ma lo scambio non è uguale perchè la quantità di luce è molto inferiore alle zone scure. Il fogliame costituisce un ostacolo insormontabile per il chiaro del cielo limitandone la diffusione ed è questo che, avendo la funzione di limite, ci permette di pensare la luce, luce che qui coincide con il cielo, con qualcosa che non ha inizio e non ha fine. Il cielo, uniforme nel suo bianco-azzurro o tormentato da attraversamenti di nuvole, è irraggiungibile e sterminato.
    Sembra – a me è sembrato – che questi lavori elaborino visivamente l’idea del limite nello spazio naturale e in questo senso sono vicini alla straordinaria lezione di Leopardi che nel L’Infinito ci dice come la siepe in realtà non ci privì dell’orizzonte, ma ci permetta di pensarlo: l’illimitato senza limite perde il suo tratto distintivo.
    E’ la chiusura del bosco dunque a richiamare l’infinitezza del cielo, conoscenza che apprendiamo attraverso la reciproca alterità dei due elementi naturali.
    La luce entra con difficoltà e proprio perché le aperture sono poche viene voglia di superare lo spazio chiuso per affacciarsi verso il chiaro. E’ il taglio prospettico dei lavori di Luigi che fa nascere questo pensiero: il fogliame sembra vicino come se bastasse poco per passare oltre, dal bosco alla luce verso l’aperto. Ma è solo un pensiero, il desiderio di avvicinarsi alle aperture con la speranza di annullare la distanza dal cielo aperto. Invece il senso delle aperture è nel loro rapporto con le occlusioni, nel loro darsi reciprocamente senso, nel produrre un equilibrio instabile. E’ vero che il bosco ci disorienta, ma se impariamo ad attraversarlo ci protegge dall’eccesso di esposizione, ci insegna il movimento dell’affacciarsi modificando l’ossevazione, apre delle possibilità a condizione che quella luce impariamo a conoscerla guardandola da dentro il bosco. Il cambiamento sta nel movimento dell’affacciarsi e non nel uscita dal bosco dentro la luce che acceca.
    Parlando della contemporaneità Agamben dice: “…essere contemporanei è, innanzitutto, una questione di coraggio: perché significa essere capaci non solo di tenere fisso lo sguardo nel buio dell’epoca, ma anche di percepire in quel buio una luce, che diretta verso di noi, si allontana infinitamente da noi. Cioè ancora: essere puntuali a un’appuntamento che si può solo mancare”.
    La contemporaneità definita come uno sguardo sull’intreccio di buio e luce ci riporta ai Cieli di bosco e alla luce che vorremmo raggiungere e toccare così come raggiungiamo e tocchiamo foglie e alberi, la luce del bosco che Maria Zambrano descrive come: “…iridescenza della luce che non cessa di discendere e di curvarsi in ogni anfratto oscuro, …e l’Iride risplende, prima che in alto nei cieli, in basso tra l’oscuro e il folto, creando così un imprevedibile chiaro propizio” dobbiamo accontentarci di pensarla per sottrazione. Di vederla come vuoto, come assenza, azione difficile per noi contemporanei che abbiamo lo sguardo rivolto verso i pieni, verso la saturazione e che con una mossa infastidita allontaniamo qualsiasi cosa ci costringa all’assenza nella realtà, prima che possa diventare condizione di consapevolezza.
    I Cieli di bosco attraverso l’immagine-bianco del cielo ci mettono di fronte all’intervallo, al vuoto della spaziatura. Partendo dall’immagine del negativo, della non consistenza – che qui è la parte bianca – possiamo restituire complessità alla visione e fare esperienza di un’assenza che si fa immagine.