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  • Adamo e le altre creature d’ombra (e di luce)
    (a proposito dell’ombra con il fiore)

    Nel giardino dell’Eden, ha luogo la scena primaria, il primo atto del gran teatro della Creazione: Dio separa la luce dalle tenebre (cfr. Genesi 1,4). Giorno e notte, luce e ombre costituiscono dunque la materia di cui è fatta la realtà umana. Beda il Venerabile (672-735 d.C.) nel primo dei suoi Libri quatuor in principium Genesis sottolinea proprio il fatto che Dio non avesse inondato il mondo di luce, ma ne avesse illuminato solo una parte. Un esegeta del IX secolo, Ishodav di Merv, nel suo Commentario, spiegava: «la notte e le tenebre sono tipo di questo mondo, nel quale la mortalità domina su di noi; mentre il giorno, tempo della luce, contiene in sé l’immagine del mondo futuro».
    Bastano questi accenni per dischiudere una prima ipotesi: lo scenario evocato da Luigi Billi è quello della creazione (una ricreazione, considerando anche il côté ludico dell’operazione) del mondo.
    Se è vero, come dicevano i medievali, che la luce è l’ombra di Dio, queste immagini ci ricordano con leggerezza e ironia che il buio è l’ombra più appropriata per l’uomo.
    Il grande pittore metafisico Giorgio De Chirico ha osservato: «Vi sono più enigmi nell’ombra di un uomo che cammina al sole che in tutte le religioni del passato, del presente e del futuro»

    Prometeo o l’invenzione della luce (e dell’ombra) artificiale
    (a proposito dell’ombra con le manette)

    Rimanendo alle origini del mondo, ma spostandoci nell’ambito culturale greco, incontriamo il mito di Prometeo, punito e incatenato da Zeus per aver sottratto il fuoco agli dei e averlo donato agli uomini.
    Quello dell’eroe greco è un atto fondativo della civiltà, che si affranca dalla totale dipendenza dalla natura: l’uomo con il fuoco, divide a sua volta la luce dalle tenebre, crea e gestisce luce e ombre.
    È prometeico pure lo sforzo di liberarsi dalle catene nella caverna del mito platonico per raggiungere un altro fuoco, il sole della conoscenza e la verità. Per distinguere i vari gradi ontologici della realtà Platone nella Repubblica (VII, 514 e seguenti) elabora la famosa parabola in cui descrive degli uomini che vivono in una caverna e vedono solo delle ombre, finché uno di loro non riesce a uscire e conoscere come stanno davvero le cose. Per Platone le ombre non sono altro che le apparenze delle cose, mentre l’essere appartiene a ciò che viene colpito dalla fonte luminosa e proietta l’ombra. Il filosofo traccia un modello di percorso intellettuale (dal sensibile all’intelleggibile) e ascetico-spirituale (dall’inganno dei sensi alla verità).

    Dante e i viaggiatori nel regno delle ombre
    (a proposito dell’ombra con la bandiera)

    Nei grandi poemi fondativi delle civiltà, l’eroe - che, di volta in volta, si chiama Gilgamesh, Ulisse, Enea o Dante - deve attraversare il paese delle ombre e della morte per giungere alla luce e alla salvezza, per ritrovare una ragione di vita e di speranza (un discorso per certi versi analogo si potrebbe fare per Orfeo il cui esito è però compromesso dall'incapacità di avere fede, dalla sopraffazione emotiva e rapace di uno sguardo che per voler subito prendere, tutto perde).
    Ripensiamo al viaggio di Dante: le anime dei trapassati che il pellegrino incontra hanno le fattezze del corpo umano ma ne hanno perso la consistenza. Fantasmi che reiterano un ricordo (della vita passata) e sono bloccati in un'azione (nell'eternità del castigo o del premio). L'incontro con le ombre è foriero di novità di vita per chi lo compie e lo testimonia al mondo. I viaggiatori nel regno delle ombre si trasformano sempre in qualche misura in guide spirituali che indicano a noi il modello paradossale di un cammino in cui è necessario scendere per poter risalire, toccare il fondo per poter ascendere, fare i conti con il mistero del male (del Male) per raggiungere una conoscenza piena dell'uomo e del mondo.
    C'è un passaggio del Purgatorio dantesco in cui si descrive l'incontro di due ombre, i poeti latini Stazio e Virgilio. Quando Stazio apprende chi ha davanti a sé, sta per abbracciarlo, ma Virgilio gli ricorda che loro due non hanno più corpo. Stazio spiega che l'affetto per il maestro è così grande che aveva dimenticato il loro essere vani e stava perciò «trattando l'ombre come cosa salda» (Purg XXI, 136). C'è in questo atto mancato una dichiarazione perfettamente riuscita relativa al potere dell'immaginario che è capace di muovere il cuore e di attivare il senso sopito della partecipazione. La poesia e l'arte non nascono per vincere la morte e la paura, ma per stabilire un ponte di comunicazione, per istituire un codice, quello della comunione con i morti.
    Von Chamisso, nella Storia meravigliosa di Peter Schlemihl, ci ha spiegato che chi vende l'anima al diavolo perde anche la sua ombra. Resta il corpo, ma si è persa l'anima. Nel caso di Dante è il contrario: le ombre garantiscono l'essere spirituale dell'uomo.

    Aladino e il genio della lampada
    (a proposito dell’ombra con la bottiglia)

    Mille e una notte, mille e un'ombra, e anche mille e una storia da raccontare per rimanere in vita. La fascinazione speziata dell'Oriente emerge anche nelle opere di Billi. Alcune sue ombre ricordano la forma che nell'immaginario popolare (fortemente condizionato dai cartoons) hanno i geni della lampada, quelli che fuoriescono dai loro riposti nascondigli per esaudire i desideri di un padrone: si pensi per esempio all'ombra corpulenta con la bottiglia o, più in generale, alla forte curvatura degli arti inferiori per cui ogni ombra sembra appena uscita dalla sua lampada magica.
    xI geni della lampada non esprimono solo la loro valenza magica, ma sono piuttosto rivelatori delle vere pulsioni e dei desideri che agitano il cuore dell'uomo: il genio anche in questo caso dunque è un'ombra cioè un doppio - un doppio potente - che porta alle estreme conseguenze le potenzialità (distruttive, costruttive, ricostruttive) dell'uomo. Billi, novello Aladino, evoca per noi questi geni: e l'ombra corrisponde così al disvelamento della parte segreta e nascosta dell'identità di ogni uomo.

    Macbeth e le Walking Shadows
    (a proposito dell’ombra con la lanterna)

    Out, out, brief candle!
    Life's but a walking shadow; a poor player,
    That struts and frets his hour upon the stage,
    And then is heard no more: it is a tale
    Told by an idiot, full of sound and fury,
    Signifying nothing.

    (W. Shakespeare, Macbeth, act V, sc. 5)

    [Spegniti, spegniti, breve candela!
    La vita non è che un'ombra in cammino;
    un povero attore
    e del quale poi non si sa più nulla.
    È un racconto
    narrato da un idiota, pieno di strepito e di furore,
    che non significa nulla]

    L'ombra cammina, s'agita, urla, strepita... insomma tiene la scena.
    Nella loro concitata icasticità le ombre di Billi risentono della lezione di Shakespeare. Ci ricordano la loro vera natura: quella di essere delle rappresentazioni. Fisse nel loro gesto, nella loro azione, nella loro postura aggrediscono lo sguardo che si posa su di loro come una minaccia. Come il babau, l'uomo nero che popola la fantasia dei bambini, che scompare non appena si accende la luce.
    A meno che non sia proprio la luce a creare l'ombra. Lo sapeva bene il gesuita Athanasius Kircher autore nel 1646 del trattato Ars Magna Lucis et Umbrae e più volte indicato come l'inventore della lanterna magica e precursore del cinema.
    Era inevitabile arrivare al cinema di fronte alla forza vagamente espressionista delle immagini di Billi. Ma non solo per questa ragione il riferimento era obbligato. II cinema è naturalmente votato alla produzione del doppio, dell'ombra, dell'altro: tanto che il grande critico francese André Bazin metteva in relazione la settima arte con il “complesso della mummia”, cioè con l'ossessione riproduttiva con cui gli uomini da sempre hanno cercato di vincere il tempo e la morte.

    M e le altre ombre mostruose
    (a proposito dell’ombra con il pugnale, dell’ombra con le forbici, dell’ombra con falce e martello)

    Il cinema è il regno delle ombre. Ombre disegnate dalla luce nel buio della sala. Ombre che spesso si configgono nel buio della mente.
    Il buio è necessario al cinema come lo è per Dracula, mito del cinema e suo coetaneo, ed egli stesso ombra.
    Tanti spettri si aggirano per l’Europa (e per il mondo).
    Un censimento della ricorrenza delle ombre al cinema sarebbe forse impossibile da realizzare. Vengono in mente immagini incisive come la prima apparizione del mostro nel capolavoro di Fritz Lang, M il mostro di Düsseldorf (M, 1931) che è proprio un'ombra su un cartello, mentre una bambina gioca con la palla; gli incubi di Giorni perduti (The Lost Week-End, Billy Wilder 1945) o ancora quelli di Il corridoio della paura (Shock Corridor, Samuel Fuller, 1963). Ci si ricorda di titoli evocativi come L’ombra che cammina (The Walking Dead, Michael Curtiz 1936) con un inquietante Boris Karloff o di Ombre e nebbia (Shadows and Fog, Woody Allen, 1991). Ma si può anche ripensare al celebre profilo di Hitchcock, maestro del brivido, che scelse la forma dell'ombra per siglare molte sue produzioni.
    Le ombre definiscono lo spazio dell'incertezza, della paura, dell'inquietudine ma è attraverso di loro che si compie un percorso di conoscenza.
    John Ford diceva: «Mi piace che le ombre siano nere e la luce del sole bianca. E mi piace mettere un po' di ombre nella luce».

    Nick Charles e gli altri Thin Men
    (a proposito delle ombre di Billi e di chi le guarda)

    Nel 1934 Dashiell Hammett pubblica Thin Man, da cui fu tratto il primo di alcuni film di straordinario successo. Il personaggio - che in Italia fu conosciuto con il nome di “Uomo ombra” - in origine era l'indiziato, ma poi venne associato al detective Nick Charles (interpretato da William Powell).
    Le “ombre” di Luigi Billi ricordano quei film per tante ragioni. Innanzitutto quei film - come queste opere - si dispongono in una serie per cui ogni elemento è a se stante, ma è anche parte di un tutto. In secondo luogo è curioso che, nella serie cinematografica, il soggetto d'indagine venga associato indissolubilmente con l'oggetto d'indagine: un procedimento, quello del legame tra soggetto e oggetto, che Billi prende decisamente alla lettera.
    Per tornare alla serie dell'Uomo ombra, va aggiunto che inaugura un genere “giallorosa” che fonde gli elementi del noir con quelli della sophisticated comedy, il mystery con la screwball comedy. Anche Billi gioca sapientemente sull'alternanza e la commistione del registro ironico e della minaccia inquietante. Resta da osservare che l'Uomo ombra - che ha a che fare spesso con le armi e con le bottiglie - ha una compagna indispensabile in Nora (Myrna Loy). L'Uomo ombra di fine millennio, così come lo ha immaginato Billi, invece è completamente solo e assume su di sé gli attributi tradizionalmente associati al mondo femminile come il fiore e il ventaglio - e forse anche la forbice castratoria, se si pensa a un film di Paul Verhoeven, Il quarto uomo (De Vierde Man, 1979).
    Le ombre di Billi, ludiche o minacciose che siano, vengono fissate nell’eternità precaria di un attimo bello, prima di svanire (e lo sa bene l’ombra che minaccia il suicidio). Fermate a mezz'aria e sospese in un gesto che teatralizza un desiderio e un'immaginazione, sono ombre che danno forma ai pensieri dei corpi che le generano (un po' come succedeva nel film Luna e l'altra di Maurizio Nichetti).
    Le ombre di Billi sono evanescenti. Come segni d’aria, scritture aeree della luce.
    Oggetti come il ventaglio e la scala appartengono esplicitamente al dominio dell'aria e del cielo, così come il telefono e il violino rientrano nello spazio etereo delle onde sonore. Le ombre di Billi sono evocative. In vari modi rappresentano, parlano, risuonano: in quanto proiezioni, doppi o fantasmi. Hanno la consistenza del sogno, la risonanza del mito. Il loro compito primario è quello di rinviare lo sguardo che si posa su di loro. Solo in questo modo peraltro l'ombra si trasforma in un'immagine chiara dell'uomo.