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  • Un manuale tecnico di storia dell’arte che volesse istrurci sull’ombra si esprimerebbe all’incira così:”Qualsiasi corpo immerso nella luce è dotato di un’ombra propria, determinata dal passaggio chiaroscurale del corpo stesso, e da un’ombra portata, che riflette la forma del corpo sullo spazio circostante e varia a seconda della fonte di provenienza della luce”. La luce e l’ombra sono evidentemente i due poli entro cui avviene la percezione.

    L’ombra è, non a caso, un’identità che riaffiora sistematicamente in tutta la storia dell’arte: sia che si tratti di una questione tecnica da affrontare perché venga resa nel modo più idoneo possibile sia che venga considerata come problema in sé. Ed è comunque, per usare un eufemismo, anche una sua “zona d’ombra”, non costituendo quasi mai particolare oggetto di riflessione se non in funzione della luce.

    In questa serie di lavori di Billi le “zone d’ombra” proposte sono di genere maschile per definizione, sono inoltre ombre portate che incombono con gesti icastici lasciando pochi dubbi sulle loro intenzioni.

    La prima impressione che ne deriva è di totale estraneità. La proiezione del corpo ne altera, infatti, le estremità inferiori che si sottraggono all’anatomia di appartenenza. Questi corpi provengono da un “altrove”, forse satiri di un mondo smaterializzato.

    Ora, è innegabile che l’ombra sia sempre prolungamento di un corpo con il quale mantiene un’area di contatto comune che è la linea da cui si diparte.Ed è questo orizzonte comune il concreto margine di interdipendenza tra un corpo e la sua proiezione. Qui l’autore ha fatto in modo che questo incontro svanisse in un’evanescenza che connota le silhouettes quasi fossero sileni. E questi sileni mi sembra richiamino, anche nell’insicurezza dei contorni, e nella deformazione che ne consegue, la pittura vascolare antica, per via di un certo rigonfiarsi in superficie dell’immagine come a volersi accomodare sulla rotondità del vaso. Proseguendo nella suggestione, non è azzardato specificarne l’ascendenza nel tipo detto “a figure nere”. Ma appunto non si tratta che di suggestione. Lungi dall’autore il benché minimo riferimento in tal senso. L’associazione deriva forse da “un che di antico” che emana da queste immagini che peraltro nulla toglie alla contemporaneità linguistica con cui si presentano.
    C’è dunque, in questo senso, una dialettica della contraddizione ad animare questi doppi.

    Si pensi che l’aspetto forse più ipnotico dell’ombra è la sua immaterialità, è la provvisorietà del corpo che la abita, la sua fuggevolezza e la sua mutevolezza, l’assenza di dettagli di identificabilità , mentre, al contrario, e nonostante quel che di straniero che si sottolineava, nelle Ombre di Luigi Billi prende il sopravvento una forte componente di riconoscibilità. Si direbbero quasi dei ritratti espressivi . Non è difficile infatti scorgervi i tratti di volti specifici, dalle fisionomie talmente caratteristiche da non poter che appartenere a quell’individuo, che lo si conosca o meno.
    Si tratta dunque anche di una teoria di ritratti. Ogni Ombra, inoltre, attraverso una forte gestualità, intende evidentemente materializzare un desiderio, viverlo e amplificarlo con deciso trasporto e con notazioni che si direbbero esplosive. Incombe nel suo isolamento dandoci dell’eterea consistenza una versione manifestatamente espressiva.
    Dunque, l’ombra appartiene, estranea ed esprime. In questa triplice connotazione risiede la forza prorompente della sua sostanza.
    Ombre “portate” si diceva all’inizio e vien da specificare “portate” su questa galleria di personaggi chiamati ad interpretare un desiderio.

    Per Lugi Billi, non nuovo a cimentarsi nel territorio dei “desideri”, è però forse questa la prima volta in cui lascia spazio al loro emergere libero, fuori dall’esplorazione dell’indotto precedentemente svolta.