• hombres

  • Oggi nell'italiano corrente la parola "maschio" è diventata quasi impronunciabile. Molti quando proprio la debbano usare preferiscono buttarla sullo scherzo e dire "maschietto".
    L'apparenza in questo caso, è quella del vezzo ma il risultato è ben calcolato.Il diminutivo fa pensare all'infanzia, tutti si sentono per un attimo più teneri e innocenti e la tensione diminuisce.
    Un'altra possibilità, se il contesto lo permette, è quella di ricorrere al termine spagnolo "macho". Anche in questo caso dietro a ciò che sembra essere un ulteriore vezzo, una semplice forma di esotismo, c'è un messaggio preciso, un invito a cogliere il ridicolo insito in ogni ostentazione di virilità. Dunque un prendere le distanze, se non addirittura un chiamarsi fuori.

    Ma perchè tanti problemi per una parola che in fin dei conti designa solo l'appartenenza ad un sesso invece che all'altro?
    la risposta è semplice: per come è stata usata in passato quando l'ideologia corrente era diversa e di sensibilità per la discriminazione delle donne e degli omosessuali non se ne parlava neppure.
    C'è però qualcos'altro nel destino della nostra parola.
    Mentre per altri vocaboli anch'essi divenuti impronunciabili a causa delle discriminazioni che ricordano, come ad es. "serva" o "zingaro" o peggio ancora "negro", si sono trovate delle sostituzioni eccellenti quali "collaboratrice domestica", "nomade" e "nero", (sostituzioni che oramai tutti accettano e usano come termini "corretti"), per la parola "maschio" non è accaduto nulla di simile.
    Anche qui si affaccia subito una spiegazione: in tutti gli altri casi la parola sostituita indicava il "discriminato", nel nostro caso, al contrario, indica il responsabile della discriminazione. Il linguaggio, insomma, sembra aver punito la presunzione maschile con una sorta di indelebilità semantica, di 'damnatio memoriae' rovesciata cui corrisponde un larvato disinteresse per il problema di come esprimersi in maniera puramente denotativa, vale a dire non necessariamente critica.

    Osservando il ciclo di lavori di Luigi Billi intitolato "Hombres" mi sono chiesto se esso non sia testimonianza del fatto che qualcosa del genere sta accadendo anche per quanto riguarda il linguaggio visivo.
    Hombres in castigliano vuol dire uomini, ma letto in italiano somiglia pericolosamente ad "ombre", il plurale di una parola che, per metafora, indica ciò che ha sì ancora la sua forma, ma non ha più consistenza, come ad es. un malato di cui si dice appunto che è divenuto "l'ombra di se stesso".
    Assecondando un gioco di parole anche qui non del tutto innocente, le immagini di Billi sono entrambe le cose: degli uomini e delle ombre.

    Secondo le intenzioni dell'autore ognuna delle figure rappresentate brandisce un qualche oggetto di "cultura maschile": strumenti di violenza, come un coltello e una pistola; strumenti di lavoro come una scala, un paio di forbici, una lanterna e persino una falce ed un martello (che sono evidentemente emblemi di militanza politica); strumenti di un qualche vizio o svago come la bottiglia con cui ubriacarsi o la bandierina dello starter di una qualche competizione (cui partecipare o su cui scommettere), strumenti di seduzione come la rosa da offrire all'amata, strumenti di dominio come il telefono da scrivania attraverso cui trasmettere imperiosamente i propri ordini, o infine strumenti usati dalla polizia per punire e reprimere, come un paio di manette.
    Andandole però a guardare da vicino le opere in questione, ci accorgiamo subito che rispetto all'intenzione dichiarata c'è qualcosa di volutamente incongruo.

    Gli uomini di Luigi Billi urtano l'immaginario collettivo in più di una maniera. Innanzitutto per il modo di gestire forzoso e teatrale, poi per il loro aspetto che non denuncia mai il vigore fisico e decisione che ci si aspetterebbe, infine proprio per gli oggetti prescelti che non fanno assolutamente pensare alla società d'oggi, ma ad un modo ottocentesco in cui ancora si lavorava con attrezzature elementari, si conquistavano le ragazze con i fiori, i giochi che potevano condurre alla rovina avevano a che fare con la forza e la destrezza, la malavita si serviva di coltelli e pistole, la salute te la giocavi con l'alcool, il comunismo, che c'era ancora, non era cose da donne, e a sancire la tua perdizione, alla fine della storia, non arrivava un ambiguo avviso di garanzia ma un maresciallo in carne ed ossa.
    Potrebbe sembrare una energica lamentazione sull'uomo di oggi che posto a confronto con un mondo in cui la virilità era messa alla prova in maniera più dura e diretta non può che farci una pessima figura, ma non è così o così semplice.
    Il vero problema, intendo dire, nasce nel momento in cui tentiamo di correggere mentalmente ciò che a nostro avviso non va. E' a questo punto infatti che l'ironia dell'autore emerge in tutta la sua elegante ma implacabile efficacia.

    Cosa consigliare ai maschi perdenti di Luigi Billi: qualche seduta di Body Building? Uno studio accurato del modo di muoversi di Sylvester Stallone? La pratica di qualche gioco estremo? Forme di corteggiamento alla Mickey Rourke in "Nove settimane e 1/2"? L'affiliazione alla nuova mafia vincente? L'assunzione delle più devastanti droghe sintetiche presenti sul mercato? L'ingresso nella clandestinità, seguito da trattative con i magistrati?
    Niente da fare, qualunque cosa proviamo ad immaginare ci appare subito come uno stereotipo vergognosamente banale e peraltro già superato da altri molto più avanzati, e ancora più improponibili, che ci vengono subito in mente.

    Conviene ammetterlo cosa possa voler dire la parola "maschio", quale senso non demenziale e non consumistico possa avere, non lo sappiamo neanche noi. Ma forse questo è un segno positivo, forse ora possiamo guardarci allo specchio con più coraggio e smettere di pensare alla massima virilità come ad un desiderio da far realizzare al genio della lampada il quale, a pensarci bene, per età e cultura, non credo sarebbe capace di produrre anche lui nient'altro che ombre del passato proiettate nel futuro, "hombres", appunto.